In stato vegetativo, riesce a comunicare

15-11-2012

www.avvenire.it           11/14/2012


Ciò che non si vede (o serve fingere di non vedere), non significa necessariamente non ci sia: come gli esperti si sgolano da anni a spiegare. Un uomo canadese, con diagnosi di stato vegetativo da dodici anni, è riuscito a comunicare con i suoi neurologi, spiegando loro che non prova dolore. È la prima volta che un paziente incapace di comunicare e gravemente cerebroleso ha dato risposte clinicamente rilevanti ai sanitari, come hanno raccontato i medici del “Brain and Mind Institute” dell’University of Western Ontario (Canada) alla Bbc online.

Il trentanovenne Routley Scott nel 2000 aveva subito una gravissima lesione cerebrale per un un incidente stradale. E da quel momento non aveva più mostrato segni di consapevolezza o la capacità di comunicare. Poi i suoi medici gli hanno posto domande mentre la sua attività cerebrale era monitorata attraverso una risonanza magnetica funzionale. «Scott è stato in grado di dimostrare che ha una mente conscia e pensante. Lo abbiamo analizzato più volte e il suo modello di attività cerebrale mostra che sta chiaramente scegliendo di rispondere alle nostre domande. Crediamo che sappia chi è e dove si trova», spiega il neuroscienziato Adrian Owen, alla guida del team del “Brain and Mind Institute”, chiamato anche il “lettore della mente” per i suoi studi sui pazienti con gravissime lesioni cerebrali.

Nel settembre 2006 la prestigiosa rivista Science pubblicò lo studio realizzato insieme a Steven Laureys dell’università di Liegi e dal titolo emblematico: “Detecting Awareness in the Vegetative State” («La ricerca della coscienza nello stato vegetativo). I cui risultati lasciarono a bocca aperta il mondo scientifico. Owen e Laureys sfruttarono una tecnica (allora) innovativa, cioè la risonanza magnetica funzionale, che permette di osservare le zone del cervello che si attivano in risposta a un determinato stimolo. Così confrontarono l’attività cerebrale di una persona in stato vegetativo con quella di un soggetto sano.

Scansionarono ad esempio le immagini funzionali del cervello di una ragazza inglese ventitrenne in stato vegetativo (per un gravissimo trauma cranico dopo un incidente stradale). Prima sorpresa: nel suo cervello si generava un modello di attivazione identico a quello corrispondente all’ascolto cosciente di soggetti sani. Seconda sorpresa: quando le si chiese d’immaginare di giocare a tennis, la risonanza mostrò l’attivazione dell’area motoria supplementare (che programma i movimenti). E successe lo stesso domandandole d’immaginarsi a passeggio dentro la sua casa.

I genitori di Routley Scott hanno sempre affermato che il figlio fosse cosciente e in grado di comunicare, magari sollevando un pollice o muovendo gli occhi, ma erano sistematicamente stati frustrati dal personale medico.

Adesso secondo Bryan Young, neurologo dell’University Hospital di Londra che ha seguito Routley per un decennio, i risultati della sua scansione cerebrale hanno ribaltato tutte le valutazioni comportamentali fatte nel corso degli anni. «Sono rimasto impressionato e stupito» nell’apprendere che Routley «era in grado di mostrare queste risposte cognitive – confida Young –. Aveva il quadro clinico di un tipico paziente vegetativo e non ha mostrato movimenti spontanei che sembrassero significativi». Non solo, ma le valutazioni osservazionali sul trentanovenne, dopo avere risposto ai test con lo scanner, hanno continuato a indicare lo stato vegetativo.

Secondo Owen, «chiedere a questi malati qualcosa d’importante per loro è stato il nostro obiettivo per molti anni. In futuro si potrebbe chiedere loro cosa fare per migliorare la loro qualità di vita».

In realtà la consapevolezza che una qualche coscienza sia presente, molto spesso, anche nello stato vegetativo, da tempo c’è fra gli esperti di questo settore. A cominciare dal loro pioniere: Leon Sazbon, israeliano, ottantadue anni, neurologo, che nel 1971 aprì il primo reparto al mondo di terapia intensiva per pazienti in stato vegetativo, poco a nord di Tel Aviv.

Spiegò due anni fa ad Avvenire che «chi dice che queste persone sono morte, non è mai stato loro vicino». Chi invece con loro vive «sa che hanno reazioni, che possono avere una vita interiore anche se disconnessa dalle relazioni e «che praticamente tutti, in un momento della loro vita, arrivano a dare un segno seppure minimo di rapporto. Grazie alle nuove tecnologie siamo sicuri che si tratti di esseri pienamente umani».